The devil is in the detail.
A volte, per mia esperienza, si comprende un fatto, mi riferisco a fatti importanti, osservandone gli effetti marginali e periferici più e e più sinteticamente che, come peraltro è necessario, esaminandolo in maniera puntuale.
Nel merito della bocciatura da parte della Corte Costituzionale del quesito riguardante la riforma, chiamiamola così, dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quesito che, per ragioni sulle quali torneremo era centrale nella campagna messa in atto da parte della CGIL ci si trova di fronte, in particolare, a due dichiarazioni suggestive.
Il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini ha tuonato:
”Dalla Consulta una sentenza politica, gradita ai poteri forti e al governo come quando bocciò il referendum sulla legge Fornero. Temendo una simile scelta anche sulla legge elettorale il prossimo 24 gennaio, preannunciamo un presidio a oltranza per il voto e la democrazia sotto la sede della Consulta a partire da domenica 22 gennaio”.
Sembrerebbe quindi che il nostro eroe sia tornato ai tempi della sua gioventù, quando era un baldo comunista padano ma, fuor di celia, è evidente che al nostro eroe i diritti dei lavoratori interessano, all’incirca, come la teologia bizantina e che li considera solo, e con qualche ragione, un argomento da usare in campagna elettorale.
D’altro canto Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato e responsabile dell’organizzazione della Lega, leghista antico e da tempo uomo delle istituzioni afferma con una allure deliziosa cavouriana:
“Il no della Corte Costituzionale al referendum sull’articolo 18 e il sì a quelli sui voucher e sugli appalti rappresentano una decisione prevedibile e condivisibile sia rispetto alle due ammissibilità sia rispetto alla non ammissibilità al referendum sull’articolo 18. La Consulta ha lavorato bene, dimostrando piena autonomia”.
Insomma ricorda di essere un serio – stendiamo un velo pietoso sulle sue note intemperanze - uomo di destra ed è quindi in pieno accordo con la sinistra realmente esistente.
Ora, che due esponenti di spicco della stessa formazione politica possano esprimersi in maniera tanto difforme potrebbe spiegarsi con la quantità di grappa assunta ma, se escludiamo l’ipotesi, rende evidente che sulla questione si giocano, almeno, due partite, una che riguarda gli equilibri politici istituzionali, probabilmente l’unica reale, che interessa Matteo Salvini in quanto animale totus politicus che si vede sfuggire una ghiotta, e gratuita occasione visto che il lavoro lo ha fatto la CGIL, per tediare il governo ed una che riguarda la vita delle lavoratrici e dei lavoratori che vede morta all’alba l’iniziativa referendaria della CGIL.
Facciamo ora un passo indietro ed entriamo nel merito della partita referendaria.
Come già detto, il più importante dei tre quesiti proposti riguarda/riguardava l’articolo 18 della legge numero 300 del 20 maggio 1970 più nota come Statuto dei Lavoratori.
L’articolo 18, in particolare, regola i licenziamenti che avvengono senza giusta causa e ha subìto una sostanziale modifica nel 2012 con la riforma della ministra del lavoro Elsa Fornero, che complicava l’applicabilità della tutela del reintegro nella maggior parte dei casi di licenziamento che arrivano in tribunale.
Il Jobs act ha superato definitivamente l’articolo 18 e ha sostituito il diritto al reintegro con un indennizzo economico in caso di licenziamento senza giusta causa.
La riforma si applica ai contratti di lavoro stipulati dopo il 7 marzo 2015 e non riguarda gli statali, come chiarito da una sentenza della corte di cassazione.
Se teniamo conto del fatto che nell’area non “coperta” dall’articolo 18 entrano, anno dopo anno, i nuovi assunti, coloro che per qualche ragione cambiano lavoro ecc. e che già prima non ne beneficiava il numeroso esercito dei lavoratori, appare evidente che si tratta di una trasformazione importante non solo e non tanto per quel che riguarda l’aumento del numero dei licenziati senza “giusta causa” quanto per il suo effetto di deterrente nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori.
D’altro canto basta pensare alla recente sentenza della Corte di Cassazione che ha stabilito che l’esigenza di aumentare i profitti dell’azienda è una giusta causa per i licenziamenti per comprendere da che parte soffia il vento.
Dichiarandolo improponibile la Corte Costituzionale ha disinnescato il referendum perché proprio la questione dei licenziamenti è quella sentita con forza da TUTTI i lavoratori, quelli già esclusi dalla protezione dell’art. 18 e quelli che temono di esserne esclusi, quelli che già prima non l’avevano ma che potevano sperare di entrare nell’area protetta e quelli, come i dipendenti pubblici, che, a ragione, temono di essere equiparati al ribasso.
Gli altri due quesiti, quelli accettati dalla Corte Costituzionale, pur obiettivamente rilevanti sono, almeno a quanto si può ipotizzare, meno sentiti anche se toccano questioni meritevoli di grande interesse.
Uno, infatti, riguarda l’abolizione dei voucher, una modalità di pagamento straordinariamente diffusasi negli ultimi anni.
Il pagamento attraverso i voucher in alcuni tipi di lavori era stato introdotto già nel 2003 per alcune forme di lavoro occasionale come le ripetizioni o le pulizie, ma negli anni ne è stato legittimato l’uso per quasi tutti i tipi di lavoro.
Il Jobs act ha esteso da cinquemila a settemila euro la cifra netta che è possibile guadagnare in un anno con i voucher.
Questo fattore, insieme ad altre misure del Jobs act che hanno ridotto altre forme di lavoro precario, ha determinato un aumento rilevantissimo dell’uso dei voucher da parte dei datori di lavoro.
Infatti, molti datori di lavoro usano i voucher per retribuire una parte delle ore di lavoro svolte, pagando in nero il resto delle ore.
Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Inps, l’uso di voucher è aumentato del 32 per cento nei primi dieci mesi del 2016, mentre nei primi dieci mesi del 2015 era aumentato del 67 per cento rispetto allo stesso periodo del 2014.
E’ quindi evidente che si tratta di uno strumento padronale volto a precarizzare il lavoro ed a tagliare il salario reale che va contrastato con forza ma, anche se si prescinde dalle critiche generali allo strumento referendum, in questo caso, senza l’aggancio alla campagna per la reintroduzione dell’articolo 18 è una forma di suicidio in diretta visto che l’argomento coinvolge una minoranza, rilevante ma sempre una minoranza, dei lavoratori e che l’esperienza ci dimostra come su referendum di questa natura la partecipazione al voto del 50% degli aventi diritto, condizione perché il referendum sia valido, è mera utopia.
Il terzo referendum chiede l’abolizione dell’articolo 29 del decreto legislativo 10 settembre 2003, cioè il ripristino della responsabilità dell’azienda appaltatrice, oltre a quella che prende l’appalto, in caso di violazioni subite dai lavoratori, norma che era stata cancellata dalla legge Biagi e, in seguito, modificata dalla legge Fornero.
Se il referendum fosse approvato l’impresa appaltante sarebbe chiamata a rispondere anche per eventuali violazioni compiute dall’impresa appaltatrice nei confronti del lavoratore.
Di conseguenza, l’azienda che appalta sarebbe tenuta a esercitare un controllo più rigoroso su quella a cui affida un appalto.
Nel merito, una rivendicazione assolutamente condivisibile visto che tenda ad una eguaglianza effettiva fra diversi settori della nostra classe sia pur all’interno delle relazioni sociali capitalistiche.
Nel metodo, e in questi casi il metodo se non è tutto è quasi tutto a meno che non si voglia fare della propaganda, valle, a maggior ragione, quanto detto sul referendum sui voucher.
Coinvolge direttamente solo un segmento dei lavoratori, non è nemmeno facile da spiegarsi e il quorum pare ancora più irraggiungibile.
A questo punto vale la pena di porsi, almeno, un paio di domande e cioè come ha reagito/reagirà la CGIL allo schiaffone che si è presa e perché mai si è infilata in questo pasticcio.
Sul primo punto, il segretario generale di Cgil, Susanna Camusso ha affermato:
”Noi siamo convinti che la libertà dei lavoratori passi attraverso la loro sicurezza. Valuteremo la possibilità di ricorrere alla Corte Europea in merito ai licenziamenti. Non è che il giudizio della Corte di oggi fermi la battaglia sull’insieme della questione dei diritti. La notizia di oggi è che inizia una campagna elettorale dei due sì ai referendum. Chiederemo al governo tutti i giorni di fissare la data in cui si vota”.
Insomma, il maggior sindacato italiano, battuto in un contenzioso legale ne tenta un altro. Verrebbe da chiedersi a chi si rivolgeranno se la Corte Europea, posto che la interpellino, darà loro torto. Forse all’ONU o, meglio, a Ming, l’imperatore di Mongo.
Sul secondo, ritengo evidente che si tratta di un’operazione messa in piedi PRIMA dei recenti accordi con Confindustria e Governo (principalmente Contratto dei metalmeccanici e Intesa sui contratti del pubblico impiego ma non solo) e volta a sostituire con un’iniziativa “politica” la forza che, sul piano della relazione capitale – lavoro, la CGIL non ha o, nella misura in cui l’ha, ha buone ragioni per non mettere in campo.
Realizzato, pagando il dovuto prezzo in termini di salario e diritti non propri ma dei lavoratori, un buon, per i contraenti - ca va sans dire, compromesso corporativo, alla CGIL non resta che sperare che il governo con qualche mezza riforma la cavi dagli impicci o un rinvio a causa delle elezioni e, alla mala parata, potrà sempre sostenere di averci provato e di aver perso per la passività dei lavoratori e dei cittadini non adeguatamente accorsi alle urne.
Per quanto riguarda chi, come me, non ritiene lo strumento referendario una manovra di Satana per distrarre i lavoratori smaniosi di lottare dalla lotta stessa ma che è ancora più certo che sul terreno della lotta di classe è un’arma spuntata, più che di fronte ad una scoperta ci si trova di fronte a una conferma.
Restano sul campo la questione che i quesiti referendari pretendevano di affrontare e resta la necessità di individuare forme di azione adeguate a questo scopo, ma questo è un altro discorso.
Cosimo Scarinzi